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di Roberto Allieri

Ringrazio la redazione per l’opportunità concessami di riproporre (con piccole aggiunte) un articolo, pubblicato in data 14-9-23 sul blog di Paciolla ‘Oltre il giardino’, a sostegno della campagna di raccolta firme ‘Un cuore che batte’. 
Un’iniziativa poco compresa, anche dagli stessi cattolici e attivisti del mondo pro-life, complice la mancanza di adeguate spiegazioni. È necessario dissipare dubbi e pretesti, spesso inconsistenti. Seguiranno pertanto altri articoli, con precisazioni a beneficio di chi, in buona fede, è disposto a comprendere ed approfondire questo tema, tutt’altro che marginale: basti pensare che negli Stati Uniti, laddove vigono analoghe prescrizioni, gli aborti si sono ridotti oltre la metà per ripensamento delle madri e senza alcuna coercizione. A dimostrazione che, se le madri incinte sono pienamente informate, capiscono meglio la scelta che è in ballo e desistono da un iniziale proposito, spesso forzato. 
Ripeto: solo il consenso espresso su informazioni non reticenti è veramente libero. Le forzature si verificano quando si negano informazioni non certo quando si offrono in pienezza (come per qualsiasi altro trattamento sanitario).

La campagna di raccolta firme a supporto della proposta di legge di iniziativa popolare ‘un cuore che batte’ (sopra riportata) entra nel vivo. Del resto, per logica coerenza, le battaglie a difesa della vita devono sempre essere vive. Molte voci però vorrebbero fare morire questo progetto. Lascia stupefatti che anche un certo fuoco amico del mondo cattolico mirerebbe ad abortirlo. 

E allora vorrei aggiungere qualche mia considerazione a supporto dell’iniziativa, per superare argomentazioni pretestuose, volte a screditarla.

Non ho la pretesa di convincere tutti. Il mio obiettivo è piuttosto quello di far ragionare su qualche punto i dubbiosi onesti, quelli che non hanno tutti gli elementi per comprendere; non quelli che, a priori, non vogliono confrontarsi. Del resto, non si può dialogare con chi è sordo e rifiuta di guardarti in faccia.

Tortura psicologica o tortura fisica?

Una delle critiche più ostili che viene mossa alla proposta è questa: per le donne che hanno scelto l’opzione dell’aborto, consentita dalla legge, sottoporsi a questa verifica potrebbe trasformarsi in una tortura psicologica. Quindi, questa inutile informazione sarebbe una forma di violenza contro le donne (nota bene: le donne incinte che vogliono abortire, sia nel linguaggio comune politicamente corretto che nella stessa legge 194/1978, non vengono quasi mai definite per quello che sono: cioè madri. Anche questa è una mistificazione. Ne è riprova il fatto che il padre del concepito viene invece sempre definito padre e non uomo o maschio). 

A me pare che questa critica sulla tortura psicologica a cui andrebbero incontro le madri,invece che minare la proposta di legge vada a rafforzarla. Riporto al riguardo quanto ho precisato in un precedente articolo (Le donne incinte si sentono torturate se ascoltano il battito del cuore del feto? E’ la prova schiacciante che non è un grumo di cellule, ma una persona)

‘Se l’ascolto di un battito del cuore diventa una tortura, vuol dire che in esso si riconosce la vita di una creatura umana che si vorrebbe sopprimere. Più aumenta il dolore della madre che vuole abortire più è evidente che il concepito viene identificato per quello che è, smascherando le manipolazioni di chi vorrebbe ridurlo ad ammasso di tessuti senza dignità. Nell’ascolto di un battito il preteso diritto di aborto evapora di fronte al più grande di tutti i diritti: quello di avere un cuore che pulsa che nessuno deve permettersi di fermare.

E allora diventa chiara la mistificazione di chi vuol attribuire ad una creatura indifesa la colpa di essere strumento di tortura a causa della semplice manifestazione della sua presenza. 

Rovesciamo allora l’accusa e poniamoci questa domanda: se ascoltare il cuore del figlio per una madre può essere una tortura, che vocabolo possiamo usare per descrivere la situazione e la sofferenza di un feto che viene smembrato e fatto a pezzi senza anestesie né riguardi o che viene eliminato da tossiche soluzioni saline che gli bruciano i tessuti?’.

Quando il consenso è libero e informato?

Ma c’è di più: se inquadriamo la proposta sul ‘battito del cuore’ non solo negli obiettivi (riduzione degli aborti) ma anche nel presupposto di tutela del libero consenso delle donne, emerge una solida ulteriore argomentazione giuridica, che andrebbe ben spiegata.

Infatti, l’equivoco corrente è che questa nuova prescrizione tolga qualcosa alla libertà di scegliere, condizionandola. C’è poi chi vede in questo passaggio una costrizione insopportabile. In tal caso si dovrebbe però spiegare come mai negli ultimi anni si siano moltiplicati senza particolari avversioni altri controlli ed esami molto più invasivi per le donne in gravidanza, spesso finalizzati ad esiti eugenetici. In realtà, l’informazione che si vorrebbe aggiungere all’iter abortivo e alle ‘buone pratiche ospedaliere’ con la proposta di legge, rende la donna più consapevole di quello che sta per fare. In altre parole, rende il suo consenso più pienamente informato, togliendo alcune zone d’ombra. E quindi più libero. 

Al riguardo, è bene ricordare che la recente legge 219/2017 sul ‘Consenso informato e Dichiarazioni anticipate di trattamento’, ha introdotto il diritto ad un consenso pieno e pienamente informato per ogni trattamento sanitario, nell’ambito di un nuovo concetto di alleanza terapeutica tra medico e paziente. Alleanza che si pretende improntata alla massima chiarezza e trasparenza. 

Questo principio è peraltro ricollegabile al primo comma dell’articolo 18 della tanto invocata L. 194/78 che recita testualmente ‘Chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Si considera non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno’. 

Dunque, negare o eludere l’obbligo di fornire pienezza di informazioni a chi vuole abortire (come si configura nell’esclusione di quella realtà autoevidente che è l’auscultazione di un battito cardiaco) significa contravvenire ad un principio sempre più considerato dalla dottrina e giurisprudenza come inalienabile e incomprimibile: il diritto del paziente di un trattamento sanitario ad ottenere un ‘consenso informato’.

Non può essere, allora, che l’obbligo di tutela del consenso informato sia per il medico obbligatorio e sanzionabile quando è funzionale a scelte di morte (DAT) e divenga invece un optional quando una informazione veramente piena possa portare a salvare una vita, sventando un aborto. Che ascoltare un cuore tocchi il cuore lo dimostra la realtà statunitense: negli Stati in cui è stato introdotto questo obbligo gli aborti si sono ridotti oltre la metà (qui).

Dunque, si mettano sullo stesso piano fattispecie analoghe: stessi obblighi, responsabilità, sanzioni o conseguenze sia per il medico che non adempie agli obblighi relativi al consenso informato sul versante del fine vita che per quello che non li adempie nell’altro versante, che riguarda la vita nascente.

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Ricapitolando: ascoltare il cuore che batte prima di un aborto, più che un dovere dei medici, dovrebbe essere considerato un diritto delle donne; una garanzia che il loro consenso ad un intervento così tragicamente importante sia veramente informato e non estorto con inganno, minacce o reticenze. E in sintonia con la stessa legge 194 (nell’articolo 18 citato).

Riguardo all’altra critica molto gettonata relativa all’inopportunità di un obbligo legislativo a carico del medico, peraltro facilmente eludibile in assenza di sanzioni, così rispondo: non è importante che ci siano sanzioni anzi, è meglio che non ci siano. Ciò che conta non è mandare in galera o rovinare i medici dissenzienti, ma salvare vite umane. Il solo fatto che la legge recepisca questa tutela farebbe ‘cultura’ e si tradurrebbe in un vincolo morale (che poi potrebbe essere puntellato e amplificato).

Insomma, questa petizione, che possiamo sottoscrivere sino al prossimo sette novembre, è sicuramente perfettibile. Ad esempio, per conto mio estenderei l’obbligo di auscultazione e di assistere all’ecografia anche al padre del concepito, se identificabile (visto che spesso si rende responsabile di odiose pressioni abortiste: vere e proprie violenze sulle donne!).

Anch’io sono convinto che la battaglia per salvare la vita nascente si vince incidendo più nella cultura che non con sanzioni di legge (altra critica molto diffusa nello stesso versante cattolico). Tuttavia, è altrettanto vero che le leggi fanno cultura e appianano la strada alle scelte etiche che sottintendono. La stessa legalizzazione dell’aborto ha spalancato il ricorso a questa pratica, attenuando le riserve o gli scrupoli. Se un comportamento è legale è giusto: questo è quello che pensano i più.

E qui concludo: se pensiamo che il grembo materno debba essere una culla e non una tomba svegliamoci, diamo voce alla vita e andiamo a firmare la petizione senza altri indugi, nel nostro Comune. 

La vita batte un colpo e ci chiama: rispondiamo all’appello!