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Il diritto di vivere viene prima di tutti gli altri

di Roberto Allieri

Prendo spunto per questa riflessione, da un contestato convegno alla Camera dei Deputati, promosso nei giorni scorsi per presentare un libro dal titolo ‘Biopoetica. Breve critica filosofica all’aborto e all’eutanasia’, che ha sollevato un vespaio di polemiche virulente.

Come spiegato in questo articolo (QUI)  il punctum dolens che ha destato maggior putiferio nei mass-media, tutti ormai allineati nel sostegno all’aborto, è stata la considerazione che l’aborto è eticamente ingiusto e non è un diritto. Da qui apriti cielo e anatemi laicisti a profusione.

Mi permetto dunque alcune considerazioni che in Francia, tipico modello di tolleranza e di libertà di pensiero, sarebbero sanzionate penalmente come ‘intralcio al diritto all’aborto’. 

L’aborto è un diritto o una tragedia da evitare?

L’aborto è prima di tutto una tragedia da evitare. E questo, teoricamente, dovrebbe mettere d’accordo tutti. È la maternità che va promossa, non certo l’aborto. Eppure, nei consultori e negli ambienti ospedalieri dove si praticano aborti la presenza di volontari pro-life che possano ‘promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna’, ‘offrire possibili soluzioni dei problemi’ e ‘aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza’ (cito testualmente passaggi dell’articolo 5 della L. 194) viene perlopiù preclusa od ostacolata.

Infatti la legge 194, oltre a prevedere molte disposizioni a supporto della madre per contrastare l’opzione dell’aborto, sin dal titolo fa precedere la tutela della maternità all’aborto (‘Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza’). La possibilità di abortire concessa dal legislatore è un po’ come la possibilità di detenere droghe per uso personale: è una facoltà permessa dall’ordinamento giuridico ma non certo un comportamento da incentivare. Una facoltà con molti limiti, che si vorrebbero ignorare.

Ad esempio, all’articolo 18 della legge 194 è prevista la reclusione da 4 a 8 anni per chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna. Per chi banalizza l’aborto e sbandiera questo atto come una conquista sociale è bene ricordare questa norma che in certi casi arriva a prevedere l’aborto come un crimine. 

Certo, ciò che viene punito da quella norma è la forzatura del consenso, che dovrebbe essere riconducibile solo alla madre. Ma allora qui si apre il capitolo del consenso informato, cioè dei requisiti che lo configurano. E si potrebbe discutere su quegli aborti indotti senza rispettare il diritto ad avere una informazione piena, consapevole e veramente informata sull’entità che si vuole abortire e sulle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto.

Ascoltare un cuore che batte o vedere un’ecografia della creatura in grembo (e qui richiamo la promozione della recente iniziativa di legge popolare ‘Cuore che batte’) restituisce un segnale scientifico e oggettivo che può aiutare a qualificare la natura del concepito. Se per una madre guardare la creatura che porta in grembo o ascoltare il suo cuoricino mettono in crisi le proprie convinzioni sulla scelta di abortire, vuol dire che queste persuasioni non erano poi così salde o che la madre non aveva considerato l’altra faccia della medaglia. Dunque, ci si può domandare: il suo consenso a questa tragica decisione era davvero pienamente informato?

Ai tenaci difensori della Legge 194/78 proporrei un assist per rilanciare una sua norma: se l’articolo 18 prevede una forte condanna dell’aborto forzato, perché non estendere la stessa disposizione a quei casi in cui le forzature sono compiute sulle donne per convincerle ad assumere pillole abortive sino al secondo mese di gravidanza? Se una donna viene spinta a quel tipo di aborto fai da te, ancora più grave di quello ospedaliero perché compiuto nella solitudine e con rischi e conseguenze che non vengono pienamente spiegati, non si può configurare una responsabilità in capo a chi la circuisce?

Oscurantista chi?

Le scomposte reazioni al convegno sull’aborto alla Camera hanno portato a denunciare contro chi definisce ingiusto l’aborto un presunto atteggiamento persecutorio e di oscurantismo. Sappiamo bene che, per qualcuno, spessissimo le accuse che si lanciano su avversari rivelano quelli che sono i propri atteggiamenti o propositi. Così, per esempio, quando si accusa la controparte di fascismo è per coprire proprie intimidazioni o imposizioni dittatoriali; quando si denunciano la violenza e le discriminazioni è per mascherare i propri atteggiamenti violenti e discriminatori; quando ci si batte contro le censure o si invoca il controllo delle fake news è per poter meglio censurare o lasciare spazio incontrastato alle proprie informazioni ‘addomesticate’.

Dunque, detto questo, come commentare le accuse di oscurantismo se non considerandole come rivelatrici su di sé di quell’atteggiamento che si vorrebbe stigmatizzare?

Se oscurantismo significa nascondere una verità scomoda, si pensi in questo caso alla questione cruciale della natura del concepito. In fondo tutta la questione si gioca lì: se l’embrione è un grumo di cellule allora l’aborto è l’eliminazione di spazzatura che può anche finire nel bidone dell’immondizia. Ma se quello è un essere umano allora cambia tutto.

Questo discrimine non può essere lasciato alla discrezionalità o alla soggettività: se consideriamo le varie normative in materia si riscontrerà che i vari Stati consentono l’aborto con limiti diversi dello stato di gestazione. Ciò distingue un prima, in cui la creatura abortita ha uno status sub umano, da un dopo in cui acquisisce una più piena dignità umana. Ma questo limite è sempre del tutto arbitrario, soggettivo o convenzionale. Anche il messaggio della Conferenza Episcopale Italiana per la 46° Giornata Nazionale per la Vita ribadisce queste contraddizioni in alcuni passaggi che è opportuno richiamare: ‘…chi tenta di definire un tempo in cui la vita nel grembo materno inizi ad essere umana si trova sempre più privo di argomentazioni, dinanzi alle aumentate conoscenze sulla vita intrauterina… Quando poi si stabilisce che qualcuno o qualcosa possieda la facoltà di decidere se e quando una vita abbia il diritto di esistere, arrogandosi per di più la potestà di porle fine o di considerarla una merce, risulta in seguito assai difficile individuare limiti certi, condivisi e invalicabili. Questi risultano alla fine arbitrari e meramente formali.’ 

Eppure, ci sarebbe un criterio sicuro e oggettivo per dirimere la questione, che chiama in causa la scienza, quella vera. Il criterio che identifica un essere umano è il suo DNA e il momento in cui si forma il DNA è quello determinante. La vita umana incomincia con il concepimento: negare questo è oscurantismo.

Una volta iniziata l’avventura della vita, dovrebbe essere chiaro che l’aborto è sempre la soppressione di un essere umano (tale è chi ha un corredo cromosomico umano), non di una pianta o di chissà cos’altro. Negarlo è oscurantismo.

E l’embrione non può avere una diversa protezione o riconoscimento a seconda di quanto è grosso o di quanto è bello. La dignità non si misura a chili ne è commisurata all’aspetto estetico. Se chi è più grosso vale di più allora smettiamo di condannare il bullismo. Se invece vale di più tanto più assomiglia ad un bambolotto, allora smettiamo di condannare il body shaming o le discriminazioni estetiche che privilegiano i belli. Negarlo è oscurantismo. 




Battito del cuore: unica possibilità di esprimere una voce umana da parte di chi non ha voce

di Roberto Allieri

Ringrazio la redazione per l’opportunità concessami di riproporre (con piccole aggiunte) un articolo, pubblicato in data 14-9-23 sul blog di Paciolla ‘Oltre il giardino’, a sostegno della campagna di raccolta firme ‘Un cuore che batte’. 
Un’iniziativa poco compresa, anche dagli stessi cattolici e attivisti del mondo pro-life, complice la mancanza di adeguate spiegazioni. È necessario dissipare dubbi e pretesti, spesso inconsistenti. Seguiranno pertanto altri articoli, con precisazioni a beneficio di chi, in buona fede, è disposto a comprendere ed approfondire questo tema, tutt’altro che marginale: basti pensare che negli Stati Uniti, laddove vigono analoghe prescrizioni, gli aborti si sono ridotti oltre la metà per ripensamento delle madri e senza alcuna coercizione. A dimostrazione che, se le madri incinte sono pienamente informate, capiscono meglio la scelta che è in ballo e desistono da un iniziale proposito, spesso forzato. 
Ripeto: solo il consenso espresso su informazioni non reticenti è veramente libero. Le forzature si verificano quando si negano informazioni non certo quando si offrono in pienezza (come per qualsiasi altro trattamento sanitario).

La campagna di raccolta firme a supporto della proposta di legge di iniziativa popolare ‘un cuore che batte’ (sopra riportata) entra nel vivo. Del resto, per logica coerenza, le battaglie a difesa della vita devono sempre essere vive. Molte voci però vorrebbero fare morire questo progetto. Lascia stupefatti che anche un certo fuoco amico del mondo cattolico mirerebbe ad abortirlo. 

E allora vorrei aggiungere qualche mia considerazione a supporto dell’iniziativa, per superare argomentazioni pretestuose, volte a screditarla.

Non ho la pretesa di convincere tutti. Il mio obiettivo è piuttosto quello di far ragionare su qualche punto i dubbiosi onesti, quelli che non hanno tutti gli elementi per comprendere; non quelli che, a priori, non vogliono confrontarsi. Del resto, non si può dialogare con chi è sordo e rifiuta di guardarti in faccia.

Tortura psicologica o tortura fisica?

Una delle critiche più ostili che viene mossa alla proposta è questa: per le donne che hanno scelto l’opzione dell’aborto, consentita dalla legge, sottoporsi a questa verifica potrebbe trasformarsi in una tortura psicologica. Quindi, questa inutile informazione sarebbe una forma di violenza contro le donne (nota bene: le donne incinte che vogliono abortire, sia nel linguaggio comune politicamente corretto che nella stessa legge 194/1978, non vengono quasi mai definite per quello che sono: cioè madri. Anche questa è una mistificazione. Ne è riprova il fatto che il padre del concepito viene invece sempre definito padre e non uomo o maschio). 

A me pare che questa critica sulla tortura psicologica a cui andrebbero incontro le madri,invece che minare la proposta di legge vada a rafforzarla. Riporto al riguardo quanto ho precisato in un precedente articolo (Le donne incinte si sentono torturate se ascoltano il battito del cuore del feto? E’ la prova schiacciante che non è un grumo di cellule, ma una persona)

‘Se l’ascolto di un battito del cuore diventa una tortura, vuol dire che in esso si riconosce la vita di una creatura umana che si vorrebbe sopprimere. Più aumenta il dolore della madre che vuole abortire più è evidente che il concepito viene identificato per quello che è, smascherando le manipolazioni di chi vorrebbe ridurlo ad ammasso di tessuti senza dignità. Nell’ascolto di un battito il preteso diritto di aborto evapora di fronte al più grande di tutti i diritti: quello di avere un cuore che pulsa che nessuno deve permettersi di fermare.

E allora diventa chiara la mistificazione di chi vuol attribuire ad una creatura indifesa la colpa di essere strumento di tortura a causa della semplice manifestazione della sua presenza. 

Rovesciamo allora l’accusa e poniamoci questa domanda: se ascoltare il cuore del figlio per una madre può essere una tortura, che vocabolo possiamo usare per descrivere la situazione e la sofferenza di un feto che viene smembrato e fatto a pezzi senza anestesie né riguardi o che viene eliminato da tossiche soluzioni saline che gli bruciano i tessuti?’.

Quando il consenso è libero e informato?

Ma c’è di più: se inquadriamo la proposta sul ‘battito del cuore’ non solo negli obiettivi (riduzione degli aborti) ma anche nel presupposto di tutela del libero consenso delle donne, emerge una solida ulteriore argomentazione giuridica, che andrebbe ben spiegata.

Infatti, l’equivoco corrente è che questa nuova prescrizione tolga qualcosa alla libertà di scegliere, condizionandola. C’è poi chi vede in questo passaggio una costrizione insopportabile. In tal caso si dovrebbe però spiegare come mai negli ultimi anni si siano moltiplicati senza particolari avversioni altri controlli ed esami molto più invasivi per le donne in gravidanza, spesso finalizzati ad esiti eugenetici. In realtà, l’informazione che si vorrebbe aggiungere all’iter abortivo e alle ‘buone pratiche ospedaliere’ con la proposta di legge, rende la donna più consapevole di quello che sta per fare. In altre parole, rende il suo consenso più pienamente informato, togliendo alcune zone d’ombra. E quindi più libero. 

Al riguardo, è bene ricordare che la recente legge 219/2017 sul ‘Consenso informato e Dichiarazioni anticipate di trattamento’, ha introdotto il diritto ad un consenso pieno e pienamente informato per ogni trattamento sanitario, nell’ambito di un nuovo concetto di alleanza terapeutica tra medico e paziente. Alleanza che si pretende improntata alla massima chiarezza e trasparenza. 

Questo principio è peraltro ricollegabile al primo comma dell’articolo 18 della tanto invocata L. 194/78 che recita testualmente ‘Chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Si considera non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno’. 

Dunque, negare o eludere l’obbligo di fornire pienezza di informazioni a chi vuole abortire (come si configura nell’esclusione di quella realtà autoevidente che è l’auscultazione di un battito cardiaco) significa contravvenire ad un principio sempre più considerato dalla dottrina e giurisprudenza come inalienabile e incomprimibile: il diritto del paziente di un trattamento sanitario ad ottenere un ‘consenso informato’.

Non può essere, allora, che l’obbligo di tutela del consenso informato sia per il medico obbligatorio e sanzionabile quando è funzionale a scelte di morte (DAT) e divenga invece un optional quando una informazione veramente piena possa portare a salvare una vita, sventando un aborto. Che ascoltare un cuore tocchi il cuore lo dimostra la realtà statunitense: negli Stati in cui è stato introdotto questo obbligo gli aborti si sono ridotti oltre la metà (qui).

Dunque, si mettano sullo stesso piano fattispecie analoghe: stessi obblighi, responsabilità, sanzioni o conseguenze sia per il medico che non adempie agli obblighi relativi al consenso informato sul versante del fine vita che per quello che non li adempie nell’altro versante, che riguarda la vita nascente.

Altri suggerimenti per distoglierci dalla ricerca di peli nell’uovo o per rimuoverli

Ricapitolando: ascoltare il cuore che batte prima di un aborto, più che un dovere dei medici, dovrebbe essere considerato un diritto delle donne; una garanzia che il loro consenso ad un intervento così tragicamente importante sia veramente informato e non estorto con inganno, minacce o reticenze. E in sintonia con la stessa legge 194 (nell’articolo 18 citato).

Riguardo all’altra critica molto gettonata relativa all’inopportunità di un obbligo legislativo a carico del medico, peraltro facilmente eludibile in assenza di sanzioni, così rispondo: non è importante che ci siano sanzioni anzi, è meglio che non ci siano. Ciò che conta non è mandare in galera o rovinare i medici dissenzienti, ma salvare vite umane. Il solo fatto che la legge recepisca questa tutela farebbe ‘cultura’ e si tradurrebbe in un vincolo morale (che poi potrebbe essere puntellato e amplificato).

Insomma, questa petizione, che possiamo sottoscrivere sino al prossimo sette novembre, è sicuramente perfettibile. Ad esempio, per conto mio estenderei l’obbligo di auscultazione e di assistere all’ecografia anche al padre del concepito, se identificabile (visto che spesso si rende responsabile di odiose pressioni abortiste: vere e proprie violenze sulle donne!).

Anch’io sono convinto che la battaglia per salvare la vita nascente si vince incidendo più nella cultura che non con sanzioni di legge (altra critica molto diffusa nello stesso versante cattolico). Tuttavia, è altrettanto vero che le leggi fanno cultura e appianano la strada alle scelte etiche che sottintendono. La stessa legalizzazione dell’aborto ha spalancato il ricorso a questa pratica, attenuando le riserve o gli scrupoli. Se un comportamento è legale è giusto: questo è quello che pensano i più.

E qui concludo: se pensiamo che il grembo materno debba essere una culla e non una tomba svegliamoci, diamo voce alla vita e andiamo a firmare la petizione senza altri indugi, nel nostro Comune. 

La vita batte un colpo e ci chiama: rispondiamo all’appello!




Sanremo, ora basta: mettete primule nei vostri cannoni!

di Roberto Allieri

Guerra in Ucraina e aborti nel mondo. Due modalità di massacro contro l’umanità, in qualche modo collegabili. Eh sì: è guarda caso la stessa cultura di morte che spinge sempre più a soluzioni mortifere come l’aborto (ma anche l’eutanasia e la soppressione di persone fragili) a voler fomentare l’escalation di un conflitto ormai sempre più vicino all’opzione nucleare della distruzione totale.

Chi odia l’uomo, considerato cancro del pianeta, parassita che consuma troppe risorse ed aria (CO2), specie animale infestante da ridurre drasticamente in tutti i modi, che scrupoli può avere per cercare di fermare l’auto-distruzione dell’umanità? Quale tavolo di pace può perseguire se non quello della pace atomica, nel silenzio radioattivo e nella desolazione che mette a tacere tutte le contese? È questo il momento di denunciare con maggior veemenza l’inganno bellicista, smascherando una propaganda sempre più sfrontata.

li appelli mortiferi di Zelensky e i suoi rifiuti di ragionevoli azioni diplomatiche giungono a Sanremo nei giorni in cui si celebra la ricorrenza annuale a difesa della vita, voluta dai vescovi italiani. Durante questo periodo il popolo pro-life manifesta come può il suo inno alla vita, proponendo tra l’altro vasi di primule a sostegno di progetti per far nascere bambini, aiutando mamme in difficoltà.

Viviamo in un Paese che sta andando incontro a un collasso demografico per mancanza di ricambio generazionale, nel quale gli aborti ospedalieri e quelli chimici fai-da-te stanno minando le prospettive della popolazione. In questo quadro sconfortante sembra assodato che la maggior parte degli aborti avvenga per cause riconducibili a motivi economici. Se il figlio non è “sostenibile” nel budget famigliare la scelta di eliminarlo viene ritenuta quella più “sostenibile”. Ecco lo scandalo: se la vita costa troppo si può sopprimere. La vita umana diventa quotabile e quindi anche oggetto di transazioni, sino al punto che un figlio può essere comprato, scelto in un campionario o scartato se difettoso, come una merce. È la stessa logica che ha alimentato e alimenta ancora oggi la schiavitù e il traffico degli schiavi.

Ma c’è anche una buona notizia. È possibile contrastare questa mentalità in diversi modi. Ad esempio, facendo capire che occorre riconoscere uguale dignità a ogni essere umano, sin dal grembo materno. La dignità è un diritto connaturato all’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio; un uomo che condivide con tutti gli altri un DNA che lo rende unico e irripetibile. L’uomo è una persona, non ammasso di materia organica. Ce lo dice la scienza e lo dimostra anche una semplice ecografia, tanto odiata perché svela le menzogne e l’evidenza che si vuole nascondere. E laddove le condizioni di vita sono tali da non rispettare la dignità umana, occorre sforzarsi non tanto per migliorare la dignità (che è una qualità intrinseca a ogni persona e immutabile, uguale per tutti) ma migliorare le condizioni degradanti.

Dare la vita o difenderla è sempre il “best interest”, il migliore interesse di ognuno. Se invece si comincia a ragionare come fanno nel mondo certi giudici o politici che pretendono di sopprimere vite umane per ragioni di scarsa qualità della vita o aspettative degradanti, cosa può impedire di affondare di proposito barconi stracarichi di migranti per gli stessi motivi o eliminare schiere di disoccupati o persone senza redditi o altre categorie sgradite? Ma torniamo alla scellerata campagna guerrafondaia e all’invio di armi fortemente voluta dai regimi occidentali (Italia compresa) a sostegno di Zelensky.

A Sanremo città dei fiori, nel periodo in cui le primule – offerte nei banchetti di movimenti pro-life – rappresentano la riscossa della vita, gridiamolo dai tetti, ai nostri governanti: mettete delle primule nei vostri cannoni!

Un Progetto Gemma – iniziativa promossa dai Movimenti per la Vita e Centri di Aiuto alla Vita che prevede un contribuito di circa 3000 euro a sostegno di gravidanze difficili – riesce in certi casi a scongiurare un aborto. Ma allora, ci chiediamo, un carro armato in meno a Zelensky quante vite potrebbe salvare destinando il suo costo a progetti di accoglienza e sostegno alle famiglie? Per inviare armi in Ucraina o per comprare vaccini inutili i fondi ci sono sempre. Ma per sostenere le famiglie italiane ad accogliere bambini arrivano solo briciole e vaghe promesse.

Certo, è triste comprare la vita, perché la vita non ha prezzo. È triste pensare che il diritto che ogni creatura umana concepita ha di venire al mondo sia spesso condizionato dalla situazione finanziaria della famiglia. Ma laddove il denaro diventa l’ultima spiaggia contro la disperazione occorre indirizzarlo dove può portare salvezza. E forse qui sta un punto cruciale che può concretamente far superare gli steccati che dividono pro-life e sedicenti pro-choice (ovvero, per la scelta di aborto): la questione del sostegno economico.

C’è infatti un duplice punto di partenza sul quale i diversi schieramenti potrebbero convergere:

1) l’aborto è un dramma da evitare (così da sempre riconoscono a parole tutti, femministe comprese); 2) le motivazioni economiche non devono essere un motivo di aborto e se lo sono possono e devono essere superate (lo prevede la stessa pur vituperevole legge 194/78).

Su questo secondo punto è bene, in particolare, far trarre alle femministe alcune coerenti conseguenze alle loro rivendicazioni di libera scelta. Del diritto cioè che una donna incinta avrebbe di scegliere liberamente se tenere o no il figlio che porta in grembo. Dunque, a questi paladini della libera scelta si potrebbe dire: se una madre non è libera di scegliere di avere un figlio perché ci sono impedimenti economici, allora sostenere finanziariamente la donna per favorire la nascita diventa un obiettivo di libertà di scelta. Infatti, una donna che volesse tenere il figlio ma abortisce perché costretta dalla pressione di chi adduce motivi di carattere economico non è libera nella sua decisione.

Almeno su questo versante, abortisti e anti-abortisti potrebbero condividere la stessa conclusione e scongiurare drammi (o meglio, tragedie), salvando innumerevoli vite. A meno che le battaglie per “la libera scelta” non nascondano una mentalità che considera la nascita di un figlio sempre come una minaccia in sé e per sé, come qualcosa da evitare. Ma se fosse così un certo mondo femminista che proclama di rappresentare e difendere le donne, dovrebbe calare la maschera. Infatti, la nascita di un figlio è un evento che nella vita riguarda la stragrande maggioranza delle donne e quindi rispettare la maternità significa mettersi realmente dalla parte delle donne; mentre contrastare la maternità contraddice l’aspirazione femminile più naturale, giusta e radicata.

Insomma, l’opzione “paga e salva” è una soluzione di compromesso che può far arricciare il naso a molti. Anche chi compra figli con il sistema dell’utero in affitto potrebbe eccepire che la vita si può comprare.

In effetti, occorre precisare: ciò che è lecito comprare non è un essere umano o una vita umana ma un’opzione di salvezza, di una persona altrimenti destinata alla morte. Il che è ben diverso. Pragmaticamente, il sostegno economico a madri in difficoltà è la strategia che può dare un più concreto successo in termini di salvezza di vite umane.

Ricorda quella adottata da Schindler nel famoso cult-movie di Spielberg. In quella pellicola il protagonista (ispirato a un vero personaggio della vita reale) salvava le vite degli ebrei condannati comprandole. E anche lui non comprava persone ma opzioni di vita per chi era condannato a morte. Schindler non metteva in discussione le leggi, né attaccava i detentori del potere. Questo non sarebbe stato possibile in quel clima culturale e politico. Ma piuttosto dava loro ottimi motivi per collaborare, seppur involontariamente, al suo progetto di salvezza. E allora, ci chiediamo, se il pragmatismo produce frutti migliori dell’idealismo senza contraddirlo, perché rinunciare?

Per non parlare di un’altra possibilità pragmatica di salvare la vita di un bambino dandolo in adozione alla nascita: è la facoltà del “parto in anonimato”, previsto dalla legge 194/78, alla quale non viene data alcuna pubblicità dallo Stato.

Concludendo: Sanremo città dei fiori che proclamano la vita o città dei cannoni che portano la morte? E il fiume di denaro che sta convergendo lì alimenterà sviluppo e crescita umana o distruzione? Basta guerra, morte, odio dell’uomo: è ora di cambiare musica.




USA: 10.000 aborti legali in meno dopo il ribaltamento di Roe vs Wade

27, Novembre 2022

Si iniziano a vedere i primi effetti positivi della storica decisone a favore della Vita della Corte suprema USA dello scorso giugno.

fonte:  Il Timone

Da quando è stata ribaltata la Roe v. Wade tante se ne sono dette, altrettante se ne sono fatte, ma un unico dato rimane oggettivo: più di 10.000 bambini non ancora nati sono vivi oggi. L’iniziativa #WeCount – un progetto di ricerca nazionale guidato dalla Society of Family Planning, un’organizzazione senza scopo di lucro che sostiene la ricerca sull’aborto e la contraccezione – ha riferito venerdì che ci sono stati 5.270 aborti in meno a luglio e 5.400 in meno ad agosto dopo la sentenza del 24 giugno che ha determinato la libertà degli Stati sulle politiche in materia di aborto. «Se questa tendenza dovesse continuare per i prossimi 12 mesi, prevediamo che più di 60.000 persone che necessitano di trattamenti per l’aborto non saranno in grado di ottenerli», ha affermato Alison Norris, professoressa di epidemiologia all’Ohio State e coautrice del rapporto, «uno shock per il sistema».

Da un articolo del New York Times risulta che l’aborto è sceso a zero negli Stati che hanno applicato divieti  – come l’Alabama e il Mississippi -, ma di contro quelli in cui l’aborto è rimasto legale, come la Carolina del Nord (37%) e il Kansas (36%), hanno registrato un aumento. Ad agosto, sono stati eseguiti meno di 10 aborti in ciascuno dei seguenti Stati: Alabama, Arkansas, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Missouri, North Dakota, Oklahoma, South Dakota e Wisconsin. Laddove l’aborto è rimasto legale, alcuni fornitori di servizi per abortire hanno messo in atto tutte le forze possibili per garantirne l’efficienza.

Per citare qualche esempio, il personale della Whole Woman’s Health in Minnesota o Trust Women in Kansas hanno fatto volare, entro l’estate, medici da tutto il Paese per riempire i loro programmi, senza considerare l’ingente numero di persone che hanno chiesto di poter prestare servizi di volontariato. I ricercatori di #WeCount hanno scoperto che il numero di aborti offerti attraverso cliniche online è aumentato del 33% tra aprile e agosto. I fornitori virtuali di aborto, che possono prescrivere pillole abortive online negli Stati in cui è legale farlo, hanno anche aumentato i loro servizi di aborto farmacologico, con il rischio di incorrere nello smercio di farmaci fasulli o che non offrono informazione e supporto medico adeguati.

Mentre si rincorre il diritto all’aborto, le organizzazioni di ricerca pro vita hanno applaudito ai dati dei bambini salvati. «I risultati del progetto #WeCount confermano che le leggi pro vita salvano vite umane», ha detto Chuck Donovan, presidente del Charlotte Lozier Institute, il braccio di ricerca di SBA Pro-Life America, «non c’è niente come la nascita di un nuovo bambino, e queste leggi si tradurranno in quel miracolo ripetuto migliaia di volte».

E anche se la macchina dell’aborto continua senza sosta a produrre alternative che sussurrano alla donna un’unica soluzione possibile, alcuni Stati stanno sostenendo alternative che affermano la vita, «l’industria dell’aborto ha un solo messaggio per le donne: non puoi farlo. Ora lo stiamo sostituendo con qualcosa di meglio: puoi farlo e saremo lì per supportarti», ha continuato Donovan, «gli sforzi degli Stati pro vita si sono già intensificati per sostenere le donne e le famiglie: il Texas da solo ha stanziato oltre 100 milioni di dollari per offrire alle donne opzioni reali».




Le donne incinte si sentono torturate se ascoltano il battito del cuore del feto?

E’ la prova schiacciante che non è un grumo di cellule, ma una persona.

Quando parliamo dell’embrione umano, tutto il discorso può essere semplificato e ricondotto ad un’unica questione fondamentale: è un ammasso di cellule (ipotesi 1) o è un essere umano (ipotesi 2)?

Precisiamo anche che la risposta a questa domanda non è soggettiva: o vale un’opzione o vale l’altra. E’ una questione ontologica, che riguarda la connotazione oggettiva del concepito. E perciò la risposta deve essere necessariamente un punto fermo per tutti. Non può essere che secondo me il feto è una persona e secondo un altro è solo materiale biologico.

Esisterebbe una terza opzione: quella di chi da una parte considera il concepito nel ventre materno come una persona, con la dignità che spetta ad ogni essere umano, e tuttavia si arroga il diritto di sopprimerlo perché è di impiccio o non desiderato. E’ questa un’opzione strisciante ma non (ancora) ammessa apertamente dall’ideologia abortista: sarebbe eticamente indifendibile ed equiparerebbe l’aborto al diritto di uccidere persone considerate di serie B o non degne di vivere. E se qualcuno pretendesse di far valere questo diritto, un altro potrebbe esercitare la stessa facoltà contro di lui. Sarebbe la fine della civiltà.

Analizziamo l’ipotesi 1. Appare ovvio che se il feto fosse assimilabile ad un mero ammasso di cellule, come un pezzo d’unghia o un dente, la sua eliminazione sarebbe da considerare come quella di un soprammobile indesiderato.

Sembra un pupazzetto di plastica e, invece, è un piccolo feto

Anche un’unghia è costituita da cellule con un DNA umano, come nell’embrione. C’è però una differenza: l’unghia, staccata dal corpo, non è un organismo bensì materia morta che evolve verso la disgregazione. L’embrione è invece un organismo che si sviluppa, alimentato da un motore che si chiama Vita.

La diversità è tutta qui: materia morta che non evolve verso forme di vita oppure organismo vivente. E’ poi importante aggiungere che questo organismo vivente che è il feto è caratterizzato da un DNA distinto da quello della madre; un patrimonio genetico che lo rende unico e irripetibile!

Ce n’è abbastanza scientificamente, eticamente e filosoficamente parlando, per dimostrare che l’embrione è una creatura umana e lo è sin dal concepimento, come riconosce la stragrande maggioranza di medici, biologi, ginecologi, ostetriche: professionisti che non possono disconoscere ciò che vedono, né ingannare la loro coscienza. E ai quali non si perdona di essere ciò che sono e di capire ciò che vedono.

E veniamo al battito del cuore. Ci sono alcuni Stati e legislazioni che riconducono a questa manifestazione l’inizio dello status di essere umano. Da quel momento in poi non si può più abortire, salvo eccezioni. Scientificamente non si può concordare con questa discriminante tra la vita umana tutelata e ciò che non viene né tutelato né riconosciuto. La domanda da porsi sarebbe: che cos’è quell’esserino prima che il cuore batta il primo colpo? E’ spazzatura che può essere smaltita nei rifiuti organici? La risposta ci porterebbe troppo lontano.

Il battito del cuore di un feto è diventato alcune settimane fa motivo di scandalo e strepiti, sollevati da femministe e da quella cultura o ideologia che considera l’aborto come un diritto.

Il fattaccio sarebbe un presunto obbligo negli ospedali dell’Umbria di sottoporre le madri che vogliono abortire all’ascolto del battito del cuore del proprio bambino.

Tale prassi (risultata poi infondata) si configurerebbe come una tortura contro le donne, che sarebbero sottoposte ad uno stress e a pressioni intollerabili.

Che spettacolare autogoal! Questa affermazione risolve la questione sullo status del feto nel modo più convincente: infatti, se l’embrione è un insignificante ammasso di cellule, che problema c’è nel sentire il battito del cuore? Tuttalpiù sarà un rumore, un suono come tanti che non dovrebbe preoccupare. Ma se invece l’ascolto di un battito del cuore diventa una tortura, vuol dire che in esso si riconosce la vita di una creatura umana che si vorrebbe sopprimere. Più aumenta il dolore della madre che vuole abortire più è evidente che il concepito viene identificato per quello che è, smascherando le manipolazioni di chi vorrebbe ridurlo ad ammasso di tessuti senza dignità. Nell’ascolto di un battito il preteso diritto di aborto evapora di fronte al più grande di tutti i diritti: quello di avere un cuore che pulsa che nessuno deve permettersi di fermare.

E allora diventa chiara la mistificazione di chi vuol attribuire ad una creatura indifesa la colpa di essere strumento di tortura a causa della semplice manifestazione della sua presenza.

Rovesciamo allora l’accusa e poniamoci questa domanda: se ascoltare il cuore del figlio per una madre può essere una tortura, che vocabolo possiamo usare per descrivere la situazione e la sofferenza di un feto che viene smembrato e fatto a pezzi senza anestesie né riguardi o che viene eliminato da tossiche soluzioni saline che gli bruciano i tessuti?

Roberto Allieri