Il diritto di vivere viene prima di tutti gli altri
di Roberto Allieri

Prendo spunto per questa riflessione, da un contestato convegno alla Camera dei Deputati, promosso nei giorni scorsi per presentare un libro dal titolo ‘Biopoetica. Breve critica filosofica all’aborto e all’eutanasia’, che ha sollevato un vespaio di polemiche virulente.
Come spiegato in questo articolo (QUI) il punctum dolens che ha destato maggior putiferio nei mass-media, tutti ormai allineati nel sostegno all’aborto, è stata la considerazione che l’aborto è eticamente ingiusto e non è un diritto. Da qui apriti cielo e anatemi laicisti a profusione.
Mi permetto dunque alcune considerazioni che in Francia, tipico modello di tolleranza e di libertà di pensiero, sarebbero sanzionate penalmente come ‘intralcio al diritto all’aborto’.
L’aborto è un diritto o una tragedia da evitare?
L’aborto è prima di tutto una tragedia da evitare. E questo, teoricamente, dovrebbe mettere d’accordo tutti. È la maternità che va promossa, non certo l’aborto. Eppure, nei consultori e negli ambienti ospedalieri dove si praticano aborti la presenza di volontari pro-life che possano ‘promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna’, ‘offrire possibili soluzioni dei problemi’ e ‘aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza’ (cito testualmente passaggi dell’articolo 5 della L. 194) viene perlopiù preclusa od ostacolata.
Infatti la legge 194, oltre a prevedere molte disposizioni a supporto della madre per contrastare l’opzione dell’aborto, sin dal titolo fa precedere la tutela della maternità all’aborto (‘Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza’). La possibilità di abortire concessa dal legislatore è un po’ come la possibilità di detenere droghe per uso personale: è una facoltà permessa dall’ordinamento giuridico ma non certo un comportamento da incentivare. Una facoltà con molti limiti, che si vorrebbero ignorare.
Ad esempio, all’articolo 18 della legge 194 è prevista la reclusione da 4 a 8 anni per chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna. Per chi banalizza l’aborto e sbandiera questo atto come una conquista sociale è bene ricordare questa norma che in certi casi arriva a prevedere l’aborto come un crimine.
Certo, ciò che viene punito da quella norma è la forzatura del consenso, che dovrebbe essere riconducibile solo alla madre. Ma allora qui si apre il capitolo del consenso informato, cioè dei requisiti che lo configurano. E si potrebbe discutere su quegli aborti indotti senza rispettare il diritto ad avere una informazione piena, consapevole e veramente informata sull’entità che si vuole abortire e sulle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto.
Ascoltare un cuore che batte o vedere un’ecografia della creatura in grembo (e qui richiamo la promozione della recente iniziativa di legge popolare ‘Cuore che batte’) restituisce un segnale scientifico e oggettivo che può aiutare a qualificare la natura del concepito. Se per una madre guardare la creatura che porta in grembo o ascoltare il suo cuoricino mettono in crisi le proprie convinzioni sulla scelta di abortire, vuol dire che queste persuasioni non erano poi così salde o che la madre non aveva considerato l’altra faccia della medaglia. Dunque, ci si può domandare: il suo consenso a questa tragica decisione era davvero pienamente informato?
Ai tenaci difensori della Legge 194/78 proporrei un assist per rilanciare una sua norma: se l’articolo 18 prevede una forte condanna dell’aborto forzato, perché non estendere la stessa disposizione a quei casi in cui le forzature sono compiute sulle donne per convincerle ad assumere pillole abortive sino al secondo mese di gravidanza? Se una donna viene spinta a quel tipo di aborto fai da te, ancora più grave di quello ospedaliero perché compiuto nella solitudine e con rischi e conseguenze che non vengono pienamente spiegati, non si può configurare una responsabilità in capo a chi la circuisce?
Oscurantista chi?

Le scomposte reazioni al convegno sull’aborto alla Camera hanno portato a denunciare contro chi definisce ingiusto l’aborto un presunto atteggiamento persecutorio e di oscurantismo. Sappiamo bene che, per qualcuno, spessissimo le accuse che si lanciano su avversari rivelano quelli che sono i propri atteggiamenti o propositi. Così, per esempio, quando si accusa la controparte di fascismo è per coprire proprie intimidazioni o imposizioni dittatoriali; quando si denunciano la violenza e le discriminazioni è per mascherare i propri atteggiamenti violenti e discriminatori; quando ci si batte contro le censure o si invoca il controllo delle fake news è per poter meglio censurare o lasciare spazio incontrastato alle proprie informazioni ‘addomesticate’.
Dunque, detto questo, come commentare le accuse di oscurantismo se non considerandole come rivelatrici su di sé di quell’atteggiamento che si vorrebbe stigmatizzare?
Se oscurantismo significa nascondere una verità scomoda, si pensi in questo caso alla questione cruciale della natura del concepito. In fondo tutta la questione si gioca lì: se l’embrione è un grumo di cellule allora l’aborto è l’eliminazione di spazzatura che può anche finire nel bidone dell’immondizia. Ma se quello è un essere umano allora cambia tutto.
Questo discrimine non può essere lasciato alla discrezionalità o alla soggettività: se consideriamo le varie normative in materia si riscontrerà che i vari Stati consentono l’aborto con limiti diversi dello stato di gestazione. Ciò distingue un prima, in cui la creatura abortita ha uno status sub umano, da un dopo in cui acquisisce una più piena dignità umana. Ma questo limite è sempre del tutto arbitrario, soggettivo o convenzionale. Anche il messaggio della Conferenza Episcopale Italiana per la 46° Giornata Nazionale per la Vita ribadisce queste contraddizioni in alcuni passaggi che è opportuno richiamare: ‘…chi tenta di definire un tempo in cui la vita nel grembo materno inizi ad essere umana si trova sempre più privo di argomentazioni, dinanzi alle aumentate conoscenze sulla vita intrauterina… Quando poi si stabilisce che qualcuno o qualcosa possieda la facoltà di decidere se e quando una vita abbia il diritto di esistere, arrogandosi per di più la potestà di porle fine o di considerarla una merce, risulta in seguito assai difficile individuare limiti certi, condivisi e invalicabili. Questi risultano alla fine arbitrari e meramente formali.’

Eppure, ci sarebbe un criterio sicuro e oggettivo per dirimere la questione, che chiama in causa la scienza, quella vera. Il criterio che identifica un essere umano è il suo DNA e il momento in cui si forma il DNA è quello determinante. La vita umana incomincia con il concepimento: negare questo è oscurantismo.
Una volta iniziata l’avventura della vita, dovrebbe essere chiaro che l’aborto è sempre la soppressione di un essere umano (tale è chi ha un corredo cromosomico umano), non di una pianta o di chissà cos’altro. Negarlo è oscurantismo.
E l’embrione non può avere una diversa protezione o riconoscimento a seconda di quanto è grosso o di quanto è bello. La dignità non si misura a chili ne è commisurata all’aspetto estetico. Se chi è più grosso vale di più allora smettiamo di condannare il bullismo. Se invece vale di più tanto più assomiglia ad un bambolotto, allora smettiamo di condannare il body shaming o le discriminazioni estetiche che privilegiano i belli. Negarlo è oscurantismo.